Gli ETF o Exchange Traded Fund – fondi comuni di investimento quotati in Borsa – seppur molto efficienti sul piano commissionale e di rendimento, non vantano le stesse caratteristiche sotto il profilo fiscale.
Per profilo fiscale non mi limito a considerare i soli redditi prodotti, quindi proventi distribuiti o eventuali plusvalenze e minusvalenze (capital gain), ma anche gli aspetti successori.
Cosa succede quando verrò a mancare? Scenario non di certo auspicabile, ma da prendere in considerazione quando pianifico un investimento di lungo o lunghissimo termine come quello azionario.
Tutto come sempre comincia dalla diatriba tra redditi e capitali e redditi diversi. Questione a cui ormai l’investitore si è rassegnato, ai fini delle imposte sui redditi.
Investire in ETF azionari non equivale ad investire in singole azioni

Iniziamo dal principio.
Ipotizziamo uno scenario: investo un certo ammontare di denaro acquistando delle quote di due differenti fondi comuni negoziati a mercato (ETF) che tracciano passivamente due diversi indici azionari.
Il primo realizza una plusvalenza (il valore di vendita è maggiore dell’investimento – ipotizziamo pari a 100), il secondo di converso invece realizza una minusvalenza (in questo caso di -80). Ci si potrebbe aspettare che l’imposizione fiscale sia dovuta sulla differenza tra 100 (la plusvalenza – il guadagno) e 20 (la minusvalenza – la perdita). Non è così.
Gli ETF producono redditi di capitale nel caso in cui generino proventi positivi ma redditi diversi nel caso in cui il risultato sia negativo. Corollario di quanto detto è che i redditi di capitale (eventuali dividendi distribuiti o plusvalenze realizzate) non potranno essere compensati con le minusvalenze prodotte appartenendo a due categorie di reddito distinte.
È contro intuitivo nella sostanza. La norma però in questo è molto chiara.
L’articolo 44 del TUIR qualifica come redditi di capitale alla lettera g) “i proventi derivanti dalla gestione, nell’interesse collettivo di pluralità di soggetti, di masse patrimoniali costituite con somme di denaro e beni affidati da terzi o provenienti dai relativi investimenti”.
Quindi tutto ciò che è distribuito da un fondo comune o realizzato a titolo di plusvalenza è reddito di capitale.
L’articolo 67 del TUIR invece definisce come redditi diversi tutti quei redditi che non si qualificano come redditi di capitali e, tra le altre, producono plusvalenze (e di converso minusvalenze sulla base dell’art. 68 del TUIR) a vario titolo (vedi lettere da c a c-sexies)).
Perché investire in ETF azionari non equivale ad investire in singole azioni?
La lettura congiunta dell’articolo 44 e 67 del TUIR determina che le plusvalenze e le minusvalenze prodotte da azioni ricadano nella fattispecie dei redditi diversi mentre le sole minusvalenze di fondi comuni di investimento, tra cui gli ETF, ricadano nei redditi diversi (le plusvalenze sono redditi di capitale, equiparate ai dividendi distribuiti da azioni).
Tornando al precedente esempio traslandolo nel mondo “azionario puro”: ipotizziamo diversamente l’acquisto di due azioni. Il realizzo di una plusvalenza di 100 è compensabile con una minusvalenza pari a – 80.
Questo non accade per gli ETF.
Con la successione non si paga la plusvalenza sulle azioni detenute

Il titolo di questo paragrafo racchiude brevemente le disposizioni contenute nell’articolo 68 del TUIR.
L’imposizione fiscale sulle plusvalenze (capital gain) è giustamente dovuta quando queste plusvalenze sono realizzate; quindi, quando concretamente vado a vendere le azioni.
La successione non è realizzativa, quindi non si integra la fattispecie di cui all’art. 67 TUIR.
Qui entra in gioco il meccanismo dello “step up”. Il valore di carico per l’erede è determinato (a norma dell’art. 68 del TUIR) sulla base del valore indicato nella dichiarazione di successione ossia il valore di mercato per le azioni quotate.
Se da un lato il de cuius non realizza una plusvalenza, non essendo quindi tenuto al pagamento, dall’altro l’erede si vede “aggiornato” il valore di carico del titolo all’ultimo prezzo di mercato.
La plusvalenza, quindi, non è dovuta quando l’erede andrà a vendere le azioni (o meglio, è dovuta ma considerando un valore di carico maggiore rispetto a quello originario del de cuius).
Si ricorda che questo è un meccanismo automatico. Se sul lungo termine ci si può attendere un beneficio in capo all’erede, nel breve termine ci si espone al rischio (inteso come imprevedibilità) che il titolo abbia un valore negativo, determinando quindi una minusvalenza non deducibile.
Per brevità si prescinde nella trattazione dell’imposta sulle successioni, che giustifica a mio avviso questo meccanismo.
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Le imposte nella successione degli ETF e dei fondi comuni di investimento

Abbiamo visto come ci sia un’asimmetria nella determinazione delle plusvalenze – redditi di capitale – e delle minusvalenze – redditi diversi – per ETF e fondi comuni di investimento.
Questo determina l’impossibilità di compensare plusvalenze e minusvalenze data l’appartenenza a due categorie di reddito diverse.
Il problema qui si pone.
Se l’art. 68 TUIR prevede un meccanismo di aggiornamento del valore di carico basato sulla dichiarazione di successione e quindi sul valore di mercato degli strumenti alla morte del de cuius, l’art. 44 e il successivo art. 45 TUIR non prevedono ciò per la determinazione dei redditi di capitali.
I redditi di capitali, infatti, teoricamente sono qualcosa che è ben distante da una plusvalenza. Rientrano in questa categoria i dividendi e gli interessi prodotti dagli strumenti finanziari.
La questione non si porrebbe nel caso in cui le plusvalenze di ETF non fossero considerate redditi di capitale bensì redditi diversi. Sfortunatamente così non è.
Al comma 1, l’art. 45 del TUIR precisa solamente che “I proventi di cui alla lettera g) del comma 1 dell’articolo 41 sono determinati valutando le somme impiegate, apportate o affidate in gestione nonché le somme percepite o il valore normale dei beni ricevuti”.
Sembrerebbe quindi necessario determinare l’eventuale plusvalenza sulla base del costo di carico del de cuius, mentre la minusvalenza sulla base del valore inserito in dichiarazione di successione, ossia il valore di mercato.
Un doppio binario che non consente di portare in deduzione le minusvalenze generate dal de cuius ma obbliga a tassare le plusvalenze.
Come si comportano le banche e gli intermediari finanziari

Il problema rileva parzialmente per tutti quei soggetti che, in applicazione del regime del risparmio amministrato, adempiono all’imposizione fiscale per il tramite di una banca o di un altro intermediario finanziario.
L’art. 26-quinquies del DPR 600/1973 e l’art. 10-ter della Legge 77/1983 impongono agli intermediari di applicare una ritenuta a titolo definitivo per le persone fisiche che trasferiscono quote o azioni ad un diverso rapporto.
L’Agenzia con Circolare n. 19/E/2013 (che ricordo, non ha valore di legge) chiarisce che tali trasferimenti si integrano anche in ipotesi di trasferimento mortis causa.
Sembrerebbe un’interpretazione un po’ forzata, considerando che la ratio dell’art. 68 TUIR sottende che per strumenti sostanzialmente analoghi il trasferimento mortis causa non rilevi. È un’interpretazione che l’Agenzia delle Entrate fornisce ma che risale ad oltre un decennio fa. Sembra essere l’unica fornita in materia successoria con riguardo agli OICR.
Ho verificato una sostanziale conformazione a tale interpretazione da parte delle banche che prudenzialmente, per non incorrere in sanzioni, applicano tale disposizione secondo quanto chiarito dall’Agenzia.
Cosa viene fatto quindi?
Viene applicata una ritenuta a titolo definitivo e pari al 26% al momento del decesso del de cuius. La quota del fondo comune viene poi trasferita al prezzo di mercato all’erede.
Nella sostanza è come se il de cuius al momento della morte avesse venduto il fondo comune o l’ETF realizzando la plusvalenza o la minusvalenza. Nel caso di plusvalenza questa viene assoggettata a tassazione, nel caso in cui si realizzi una minusvalenza questa viene “persa”.
Portafogli titoli presso intermediari non residenti e successione

Nel caso in cui il portafoglio titoli sia detenuto presso un intermediario non residente la faccenda si complica.
La ritenuta di cui all’art. 26-quinquies del DPR 600/1973 e all’art. 10-ter della Legge 77/1983 non si applica agli intermediari non residenti.
Il contribuente in regime dichiarativo dovrà quindi decidere come comportarsi.
Conformarsi a quanto sostenuto dall’Agenzia in questa datata interpretazione non pare ragionevole. Questo in particolar modo considerando che non si rileva alcuna norma che mi consenta di sostenere, nelle vesti di erede, un maggior valore di carico ai fini del calcolo della plusvalenza.
Cosa fare quindi? La linea più ragionevole da perseguire probabilmente resta quella del doppio binario.
Il de cuius non sosterrà alcuna imposta per la plusvalenza che non ha realizzato. L’erede oltre alla quota dell’ETF o del fondo comune erediterà anche il valore di carico in capo al de cuius determinando quindi la plusvalenza considerando “le somme impiegate, apportate o affidate in gestione” come menzionato dallo stesso art. 45 del TUIR.
Conclusioni
Come ben potete avere notato la normativa in materia non è chiara e sembra esser frutto di un’unica grande stranezza legata alla mancata qualificazione quale reddito diverso delle plusvalenze derivanti dai fondi comuni di investimento ed ETF.
Già si vociferava che si sarebbe posto rimedio nel corso della scorsa legge di bilancio. Ciò non è ancora avvenuto.
Gli Exchange Traded fund, nonostante la loro indubbia efficienza, continueranno a godere di uno svantaggio sotto il profilo fiscale (impossibilità di compensare minusvalenze e plusvalenze e mancato step up).
Le singole azioni fortunatamente non prevedono tale asimmetria.
Auspicabilmente ciò verrà risolto in futuro ma per ora restano ancora forti dubbi. È necessaria quindi massima prudenza.
Bibiliografia
- Art. 44, 45, 67, 68, TUIR
- Art. 26-quinquies, DPR 600/1973
- Art. 10-ter della Legge 77/1983
- Circolare n. 19/E/2013
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